VAL CASSINA
UN LUOGO MISTERIOSO
Val Cassina è uno stretto canale che si apre tra il Sasso Cavallo ed il Sasso dei Carbonari nel massiccio della Grigna Settentrionale. Non è un luogo particolarmente frequentato dagli escursionisti perché per raggiungerlo ci vogliono almeno due ore di cammino ed il sentiero che lo percorre è abbastanza disagevole. Quasi alla sommità, poche decine di metri sotto la forcella, si apre un grosso pozzo a cielo aperto denominato abisso di Val Cassina.
L’abisso di Val Cassina fu disceso per la prima volta nel 1959 da Giancarlo Pasini, Danilo Mazza e Tito Samorè. Ora che scrivo posso solo cercare di immaginare la fatica che fecero e la quantità di scale che portarono. Probabilmente salirono da Mandello, facendo tappa al Rifugio Bietti. Forse solo uno dei tre raggiunse il fondo, gli altri due si fermarono più in alto a fare sicura in maniera che l’uomo di punta potesse risalire senza correre troppi rischi. Quello che so è che una parte delle scale utilizzate vennero abbandonate sul fondo dell’abisso e che la grotta venne stimata profonda 152 metri.
L’abisso di Val Cassina fu ripercorso un paio di volte a metà degli anni ‘80 da speleologi di Milano e Mandello. Al fondo, oltre alle scale abbandonate, trovarono un deposito di neve e ghiaccio. Anche questa volta la grotta non fu rilevata e mantenne un alone di mistero legato all’assenza di dati certi riguardo al suo sviluppo.
Questo fino ad un caldo sabato di Luglio 2007 quando siamo tornati per porre fine al mistero.
LA DISCESA
Mi cambio sul bordo del pozzo per evitare una passeggiata sotto al sole, ma questo non mi salva da un terribile bagno di sudore. Mentre lotto con tuta e sottotuta, Andrea arma il primo saltino ancorando la corda ad un rigoglioso mugo. All’ultimo passaggio della vestizione, ormai fradicio di sudore, mi rendo conto di non avere il pettorale; a togliermi dall’impiccio ci pensa Luana dandomi il suo ritenendolo più utile per me che devo armare piuttosto che per lei che scenderà rilevando. Completata l’insana vestizione, passo i sacchi giù dal saltino e scendo alla ricerca di un po’ di tepore. Ci ritroviamo in piedi su un macigno parcheggiato lì da chissà quale catastrofe cosmica. Andrea è preoccupato della stabilità del luogo, io anelo solo un po’ di ombra, così pianto il primo fix e scendo lungo il terrazzo disgaggiando malamente. Finalmente, in prossimità del salto verticale, entro nel cono d’ombra della parete ed i miei neuroni ne traggono immediatamente giovamento.
L’abisso comincia con un colatoio ingombro di massi che cerco di rendere umanamente percorribile. Sulla parete di sinistra trovo due vecchi spit arrugginiti. Anche se la posizione non mi piace granchè cerco di inserire una vite nel primo. La ruggine ha la meglio sul tentativo di avvitamento; il caldo mi ha impedito di ragionare su ciò che dovevo tenere con me ed il maschio dell’otto, tanto utile in questo momento, giace in fondo ad un sacco pressato da decine di metri di corda. Abbandonata l’idea di usare gli spit, saggio la roccia sopra di me. Facile la vita con il trapano! Una volta trovato il luogo adatto basta alzare il braccio e pigiare il trapano contro la roccia per una trentina di secondi ed il foro è bello che fatto. Niente a che vedere con i minuti necessari per uno spit o, peggio, l’interminabile ricerca di una fessura adatta ai chiodi a disposizione, supplizi toccati ai miei predecessori. Piantati i due fix necessari per un bel coniglio, filo fuori dal sacco qualche metro della corda da 100 con la quale decido di armare il primo salto verticale. Mentre comincio la discesa Andrea e Luana mi raggiungono alla partenza del colatoio per evitare di muoversi sullo scivolo con me appeso alla corda diversi metri più in basso. Scendo pochi metri e mi fermo a frazionare. Andrea mi consiglia di tenermi sotto al colatoio, che sembra la traiettoria meno percorsa dai sassi che cadono dallo scivolo. Scendo ulteriormente indirizzandomi verso un terrazzino che intravedo nella penombra una decina di metri sotto di me. D’improvviso la parete alla mia destra sparisce e il pozzo si apre in un ellissoide di 25 X 20 metri. Il sole a picco illumina tutta la parete di sinistra ancora per molti metri sotto di me e folate di vapore freddo risalgono danzando illuminate dai suoi raggi. Non deve essere stato un passaggio facile con le scale! Per quanto mi riguarda basta cercare la verticalità spostandomi alla mia destra. Il setto di roccia nella posizione ottimale è percorso da lunghe fessure e suona vuoto. Arretro più di quanto avrei voluto per trovare della roccia solida. Con i piedi già nel vuoto mi afferro alla parete con la mano sinistra. Il primo appiglio mi rimane in mano e la percussione mi spinge via, verso il vuoto. Il secondo appiglio è migliore e mi permette di terminare il foro. Per piantare il secondo fix mi incastro tra le pareti con la spalla sinistra ed il gomito destro. Finalmente posso regolare il nodo e far scivolare metri di corda fuori dal sacco. Monto il discensore e scendo velocemente verso il grosso terrazzo che intuisco svariati metri sotto di me. Dopo una ventina di metri di vuoto torno contro parete. Butto giù qualche sasso instabile e continuo la discesa convinto di raggiungere un luogo in piano. In realtà, dopo una quarantina di metri, raggiungo un ambiente in forte pendenza ingombro di pietrisco. Mi sposto ulteriormente verso valle fino ad un terrazzo dove riesco a stare in equilibrio. Per poter far scendere gli altri devo comunque piantare un fix nella parete per assicurarmi. Andrea scende lamentandosi della mia scarsa pulizia del pozzo mentre cerco di studiare la via più comoda per proseguire la discesa. Alla mia sinistra, pochi metri sotto di me c’è un grosso scivolo inclinato. Quando Andrea mi raggiunge decidiamo che scenderemo di lì, per spostarci il più possibile dalla prima verticale discesa. Con un paio di fix ed un sacco incastrato per proteggere la corda da una lama di roccia, raggiungo il terrazzo e lo traverso per raggiungere la parete opposta . Lo scivolo è un piano inclinato di circa 45° completamente ricoperto di sassi e ghiaia. Riparto disgaggiando sapientemente, lanciando metri cubi di materiali nel vuoto. Non sono neanche a metà del terrazzo che mi ritrovo con il capo della 100 in mano. Mi nasce anche qualche dubbio circa il fatto di riuscire a raggiungere il fondo se l’abisso fosse veramente profondo più di 150 metri. Un rumore viene però a rinfrancarmi: all’ennesimo sasso lanciato infatti mi risponde da 40 metri al massimo un fragore metallico che immagino essere prodotto dalle scale abbandonate che troveremo al fondo. Con uno spezzone insignificante raggiungo il bordo del salto verticale. Andrea mi passa la corda da 37 con la quale giudichiamo di riuscire a raggiungere il fondo. Scendo cercando di togliermi da sotto il terrazzo dove Luana ed Andrea muovendosi provocano la caduta di sassi. Sull’ultima placca trovo infisso un chiodo per le scale. Scendo cercando di tenermi a destra ma la placca è viscida e mi ritrovo a scivolare verso il centro del colatoio sotto stillicidio e sulla traiettoria di ogni sasso che cade dallo scivolo. Monto i bloccanti e risalgo quel che basta per frazionare sul vecchio chiodo. Con un ancoraggio così vicino tenersi a destra è molto più facile. Raggiungo il margine della placca e pianto i due fix di quello che prevedo essere l’ultimo tiro. A 2 metri da terra la corda finisce; sembra che il frazionamento sul vecchio ancoraggio che Andrea scioglierà scendendo mi sia costato caro. Due metri però sono veramente pochi, così sciolgo il nodo in fondo alla corda e lascio che questa scivoli fuori dal discensore nel momento stesso in cui poso i piedi a terra. Sono in una sala ingombra di massi, sparsi qua e là ci sono pioli di scalette in alluminio, dal detrito spuntano anche cavetti contorti e arrugginiti. All’estremità opposta della sala un arrivo d’acqua si perde in uno sfondamento. Mi avvicino assicurandomi che è solo di tre metri. Non ci sono altri pozzi: siamo al fondo dell’abisso di Val Cassina. “152” non erano i metri di profondità ma i metri di scale usati per discenderlo la prima volta. Mentre Andrea e Luana scendono rilevando percorro l’intero perimetro della sala di fondo. Nella parte più discosta un passaggio tra i massi sembra, forse, celare una possibile prosecuzione. Ma il fango presente mi convince a lasciare al giovane eroe che sta scendendo la premiere dell’esplorazione. Andrea arriva tirandosi dietro la bindella. Mentre fa il caposaldo su un masso sporgente intravedo qualcosa di arancione tra il pietrame sotto i nostri piedi. Afferro l’angolo arancione e mi ritrovo in mano una vecchia sacchetta d’armo. L’apriamo e dentro scoviamo un martello, un piantaspit e alcuni spit arrugginiti. Attendendo l’arrivo di Luana indirizzo Andrea verso la strettoia. Luana atterra nella sala giusto in tempo per sentire le imprecazioni del malcapitato che è andato ad infilarsi in un postaccio privo di prosecuzioni. Nuovamente riuniti terminiamo il rilievo della sala del fondo. Da un angolo si riesce a vedere ancora il cielo azzurro, 128 metri sopra di noi. Rilievo è fatto, abbiamo trasformato il misterioso abisso di Val Cassina in una ordinata serie di triplette numeriche (distanza, direzione, inclinazione).
Andrea si avvia per primo tirandosi dietro il sacco con le corde in eccesso. Lo segue Luana con il tiracroll di fortuna che non la aiuta certo nella risalita. Ultimo salgo io con il compito di disarmare. Al terrazzo passo ai miei compagni la corda disarmata, così salgo scarico filando nel saccone rosso che penzola sotto di me la corda da 100.
Quando usciamo è già buio, recuperiamo tutti i materiali e ci avviamo barcollando sotto il peso dei nostri zaini verso il Bietti, nella notte stellata.